Marduk- “Memento Mori” (2023)

Artist: Marduk
Title: Memento Mori
Label: Century Media Records
Year: 2023
Genre: Black Metal
Country: Svezia

Tracklist:
1. “Memento Mori”
2. “Heart Of The Funeral”
3. “Blood Of The Funeral”
4. “Shovel Beats Sceptre”
5. “Charlatan”
6. “Coffin Carol”
7. “Marching Bones”
8. “Year Of The Maggot”
9. “Red Tree Of Blood”
10. “As We Are”

Has it dawned on you yet?
Have you begun to grasp?
That life is not a clock…
But an hourglass?

Esiste una marcia il cui passo non rallenta mai. Una marcia il cui battente rullare non muta mai di ritmo, di tempo o intensità, in uno scorrere perfettamente cadenzato, ipnotico, che non è ciclico bensì disperatamente lineare, molto più simile all’inesorabile estinguersi graduale della sabbia in una clessidra che al giro di un orologio inarrestabile se non dal tempo stesso.
Ogni minuto il morso di una vipera; ogni secondo speso alla ricerca di un significato e della tomba di Dio, lo sguardo maledetto del rospo – e quella marcia di tibie, che insistono a ferir le pelli umane di un tamburo il quale, come l’opera di flagellanti, scandisce coi suoi sordi rintocchi una processione funebre verso la buca nel terriccio a cui ogni uomo è destinato per sacro vincolo di nascita innegabile, li compita tutti snocciolandoli uno dietro l’altro, con ripetizione febbrile votata all’annullamento, alla cessazione, all’esaurimento. Alla scomparsa.

Il logo della band

E la differenza è forse proprio tutta lì, nella profondità allibente di una metafora che ha dell’orrendo: la vita nella sua dissolvente singolarità non è un orologio ma una clessidra. Non ruota né si ripete, al contrario, si smorza: tramonta al calare delle tenebre più lunghe e banalmente cessa di essere, senza deroghe. Ci chiedono i Marduk, nella eccezionale voce di un Daniel Rostén sempre più fedele al suo latinato nome d’arte impiegato nella band di cui è frontman da oltre vent’anni, se siamo pronti – se tutto nel nostro insignificante buco è in ordine -come servisse- per fronteggiare quel momento fatidico. Se la nostra mente sarà libera da dubbi e incertezze, se sarà a suo agio, sicura e finalmente pronta al riposo nel momento in cui le ombre si prolungheranno al limitare estremo dell’ultima giornata su questo pianeta, mentre la morte si adopera a distruggere il personale palcoscenico che si credeva essere il centro di un microcosmo in procinto di spegnersi come una stella collassante su sé stessa. In ciò un monito, per qualcuno scontato eppure eterno: “Memento Mori”. Una fissazione, un chiodo irremovibile che è ogni primo ed ultimo chiodo in ogni bara, e una riflessione costante fin dall’antichità per dare forma al più grande mistero irrisolvibile che l’umanità sia mai riuscita a concepire, contemplando la totalità di qualcosa che non sappiamo veramente se essere fine o inizio, trasformazione o terminazione nel momento in cui osserviamo con terrore primordiale la preziosa vita terrena sgattaiolare fuori dalla botola del Diavolo.

La band

Hodie mihi, cras tibi – mihi heri, et tibi hodie…

Forbici battono carta. Pietra tombale batte piuma. La bara batte il salvatore. La vanga batte lo scettro, nell’istante in cui la bilancia tende al suo eterno ricalibrarsi, al suo armonico, imparziale equilibrarsi tra forza e peso, pencolante sui rami rosso scarlatto e venosi dell’albero del sangue, della vita eterna nell’aldilà. E quella importantissima voce che non sembra proprio esser d’umano, piuttosto di un cadavere, marcescente e decomposta nella sua potenza espressiva impareggiabile continua a ribadirlo fintanto che la marcia di cui si fa portavoce e narratore esterno procede nel suo avanzare d’acciaio, di musica che sembra non possa esser scalfita qualunque cosa accada perché comandata e suonata da esseri presenti nel sovrastrato che sta nel limbo tra vita e morte, pertanto sempre più grandi di entrambe le parti.
Perché tra la vita e la morte comme dans une grande danse macabre, non si capisce bene da dove né in quale stregato modo, ci parlano e ammoniscono brani come la title-track, nonché apertura del disco, tanto quanto lo fanno “Shovel Beats Sceptre” o “As We Are” dove avviene persino un piccolo miracolo concettuale, in cui un trasfigurato Lars-Göran Petrov discorre dall’oltretomba recitando un’immortale predica dei defunti nel tramite di una registrazione precedente la sua morte e finalmente utilizzata in un contesto che, per circostanza testuale e contestuale, diviene credibilmente ultraterrena, dotata di una forza oltre ogni decisione, che mette semplicemente i brividi e regala sincera, terrificante riflessione meta-artistica quanto raramente può accadere. Riff come canti gregoriani mascherati, infidi non meno della stirpe dell’arci-serpe Abramo, delle divinità e dei demoni del deserto si mescolano a citazioni d’autore a metà tra il geniale, significativissimo e sinistro presagio di morte come nell’appena accennato tema dell’Overlook Hotel e l’apocalittico monito della totentanz musicalmente attribuita a Johannes Ockeghem, tutti amalgamati in transizioni cinematograficamente stupefacenti che fanno scorrere l’intero disco quasi come un unico brano dalle mille variazioni, mutatis mutandis dalla fermezza immarcescibile con cui i Marduk cantano il vangelo dei vermi e la promessa della tomba: l’unico ius soli ed autentico obbligo a cui l’uomo sia destinato.
E in questo trionfo di atmosfera da lugubre, notturno scrittoio medievale illuminato dalla fioca luce di una candela o di una lanterna, l’ormai da tempo più longevo e rappresentativo cantante della band prende in mano per la prima volta anche parte degli altri strumenti e -per pura circostanza creativa, v’è da giurarci- scrive l’interezza dell’album firmandosi autore di ogni brano, con soltanto il dipartito Joel Lindholm (le quattro corde basse, peraltro stupendamente udibili in tutta la loro metallica distorsione che regala tutta un’altra dimensione alla musica, vengono convenientemente registrate a sei mani anche da Devo e dallo stesso Rostén) ad aggiungere il suo pugno su due degli episodi più inflessibili e reminiscenti l’epoca per così dire di mezzo del gruppo, tra “Panzer Division Marduk” e “World Funeral”. Stilisticamente infatti -e piuttosto- un imprevedibile amalgama del meglio di “Rom 5:12”, “Plague Angel” e “Frontschwein”, per dirne solo tre purché siano conditi di una produzione e varietà interna non dimentiche di “Viktoria”, benché non abbia lo sclerotico funambolismo di “Wormwood” (comunque in parte bissato in episodi eclettici come il singolo di lancio “Blood Of The Funeral”) l’atmosfera che i sotterranei accorgimenti sepolti nel muro di efferata aggressione dipingono è quella del medesimo terrore religioso; anche e soprattutto quando il trio rallenta con punte di eccellenza quali la già debitamente citata “Shovel Beats Sceptre”, con il suo incedere da ballata macabra, nei giri concentrici della velenosa “Charlatan” (forse la più reminiscente, insieme al gusto sottilmente melodico dei lead serpentini che concludono la sesta traccia, del recente “Deiform” marchiato Funeral Mist) o semplicemente nelle urticanti, gustosissime sezioni delle impetuose “Heart Of The Funeral” e “Marching Bones” in cui la sezione ritmica accelera senza ricorrere alla frantumante chirurgia dei blast-beat a dir poco ferrei della new-entry Schilling come invece maggiormente esercitati (peraltro con splendide doti d’accentuazione) nell’irreprensibile famelica sete funerea di “Coffin Carol”, oppure nello scomposto, fracassante tecnicismo di “Year Of The Maggot” o ancora nell’ultraviolenza barbara di tempi generalmente serratissimi. Ma anche dove ciò avviene all’apice della tensione ritmica, maestoso emerge l’uso di stratagemmi atmosferici (siano gli ottoni sintetici à la Dark Ambient magistralmente integrata del minacciosissimo, deviato terzo brano, o le nervature quasi-sinfoniche della bordata “Red Tree Of Blood”) i quali risplendono maestosi nel cuore del maelstrom sonoro architettato da Mortuus: un bosco di croci, giardini di pietra gorgonica resi eterni dallo sguardo del basilisco e dall’artiglio della coccatrice, in cui i crescendo della fulminante “Marching Bones” o quello sensazionale di oscurità che si comprime ed esplode nell’urlo disumanamente protratto a due minuti e quarantaquattro secondi del terzo pezzo prima che squillino le trombe dell’inferno in tutta la sua malata, impietosa rettitudine, divengono una valanga di ossa, ondata crepitante di resti che avanzano con la rigidità pietrificata di un cadavere in rigor mortis a quel ritmo costante regalando una lezione in corsi e ricorsi; in trasformazione e trasmutazione; in mortalità e trasfigurazione di tutto ciò che vi sta in mezzo. Un’alchimia vera e propria che è impensabile trovare ab imis nei solchi incisi da band nel fiore della maturazione e all’apice della loro creatività – figurarsi in quelli nondimeno zenitali d’una celebrante oggi i cabalistici trentatré anni dalla prima formazione, donando ancora più significato ad un simile titolo che ci parla su più livelli, che sussurra gretto e su ali di catrame…

Respice post te! Hominem te esse – memento! Memento mori!

È dunque a buonissima ragione che “Memento Mori” può essere ritenuto uno dei capitoli ad oggi più immancabili, uno dei più altamente riusciti, dei più definitivi in essenza e pertanto pienamente rappresentativi dell’intera poetica, estetica nonché titanica epopea discografica dei Marduk: con ogni probabilità il più coeso, il più coerente e puramente back-to-front, splendidamente continuo nonché uno dei più ricchi mai realizzati dal leggendario gruppo svedese, al quale va tributato ogni elogio meno una inesistente scontatezza spesso ingiustamente conferita per sola fama. Un album da ovazione, da godersi ma anche su cui soffermarsi a riflettere con attenzione: proprio in quel suo essere un concentrato dei migliori esperimenti di ieri ed oggi della band, rivestiti di tutta una nuova personalità, il full-length numero quindici della creatura attualmente incarnata da Daniel Rostén, Morgan Håkansson e Simon Schilling scorre come una scrosciata di maledizioni ataviche e mefitica distruzione rimanendo sempre profondamente riflessivo nell’eccezionale e cadaverico gusto poetico, metrico e lirico sviluppato da Mortuus (ben più profondo, colto e fine di un mero nihil morte certium) su canzoni che possono per la prima volta essere definite completamente quanto ineditamente sue. Ed è a dispetto di ciò, nonché forse proprio per questo, che non avviene nessuna rivoluzione copernicana, bensì un insegnamento di spersonalizzazione e pura ispirazione – ogni croce e pietra tombale un certo oroscopo, ogni bara ed ogni urna un faro di speranza, perché un giorno voi foste come noi siamo e un giorno noi saremo come voi siete; perché tutta la carne è erba quando la cenere chiama. Perché tutta la carne, senza distinzioni, è denaro quando batte il martelletto sul pulpito del giudizio, al cui suono le parole vengono a mancare; al cui suono tutto resta sigillato nel tempo così com’è, di fronte all’unico legittimo re la cui corona è fredda e oblunga, come dev’essere e come incantato sembra dalla più inspiegabile, mostruosa e prosaica delle magie che è destinata per l’unico nudo diritto di nascita ad ognuno di noi: la morte.

Miseremini mei miseremini mei saltem, vos amici mei quia manus Domini tetigit me –
O vous qui pour ici passe prie Dieu pour les trapasse, car leur donne comme vos avoint ete et leur comme nous sare.

Matteo “Theo” Damiani

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